Una ricerca americana pubblicata su Harvard Business Review evidenziava come, al cambio del CEO in azienda, i direttori a suo riporto, saltavano.
Molti, ma non tutti. La ricerca indagava le eventuali condizioni, che avevano permesso ai pochi di restare a bordo.
Avevano tutti messo in atto due speech acts:
- Avevano “dichiarato” al CEO che lo avrebbero supportato al 100% nei sei mesi successivi, consapevoli di quanta pressione e ostacoli il CEO si sarebbe trovato ad affrontare nella prima parte del mandato.
Gli hanno detto: “Conta su di me, io ci sono! Alla fine dell’anno vedremo insieme come è andata e ne parleremo, ma intanto ci sono”; - Avevano fatto domande specifiche sulle aspettative del nuovo capo, sul suo modo di lavorare, come: “Quali fatti ti fanno cambiare idea? Le statistiche o i risultati sul campo? Se non sono d’accordo e non c’è stato tempo per parlarne prima, come vuoi che mi comporti? In quali situazioni preferisci che condivida con te il mio punto di vista? Posso essere in disaccordo con te solo in privato o anche pubblicamente? Se ho tentato di convincerti del mio punto di vista e non ci sono riuscito, dovrei provare ancora o accettare semplicemente la decisione presa? Cosa esattamente ti aspetti da me?”
I pochi che avevano mantenuto il loro ruolo dopo un anno, avevano dichiarato chiaramente da che parte stavano e avevano fatto richieste chiare.
Chiedere, offrire, dichiarare
Oggi ci sono manager che sono entrati nelle aziende senza aver mai incontrato il loro nuovo capo di persona, senza aver mai visto in presenza le persone del loro team.
In queste condizioni diventa ancora più importante chiedere, offrire, dichiarare per costruire fiducia e lavorare insieme in modo efficace.
Fare una richiesta può talvolta sembrarci difficile, rischioso, ci fa esporre, ci fa mettere nella scomoda condizione di poter ricevere un no. Ma è così importante!
Il coaching ontologico
Il coaching ontologico, nato in America negli anni 80 grazie a Fernando Flores, Rafael Echeverria e Alberto Maturana ha studiato il linguaggio e il suo stretto legame con le emozioni.
Ha evidenziato come il linguaggio sia azione, coordina le azioni ed è creativo, generativo, fa sì che le cose accadano.
Se faccio una richiesta e mi rispondi di sì, ottengo una promessa; se faccio un’offerta e viene accettata, la mia vita può cambiare completamente. Ci sposiamo, cambiamo lavoro, accettiamo o rifiutiamo cure mediche attraverso il linguaggio.
Il coaching ontologico ha identificato gli speech act, gli attori fondamentali del discorso: richieste, offerte, dichiarazioni, valutazioni e affermazioni. In ogni comunicazione c’è sempre uno speech act.
Imparare a fare le richieste è il primo importantissimo passo per avere delle buone conversazioni e delle buone relazioni. Farle in modo chiaro, richiede che si considerino alcune semplici regole che valgono sia nelle comunicazioni in video che di persona.
- Assicurarsi di avere l’attenzione dal nostro interlocutore al 100%, chiedergli se ha cinque minuti per noi, se può dedicarci questi pochi minuti di attenzione. Se vediamo che guarda i messaggi sul telefonino, anche se è il capo, possiamo chiedergli se preferisce fissare un appuntamento in un altro momento. Assicuriamoci che ci guardi negli occhi, che ci sia davvero;
- Definire le condizioni di soddisfazione ed essere specifici. Quale è il risultato che sto chiedendo e che mi farà essere soddisfatto?;
- Definire i tempi: entro quando, per quando?;
- Scegliere il tono con cui comunico. L’emozione che trasmetto renderà la richiesta più o meno efficace. Sarà importante che sia coerente con il tipo di richiesta: se sto chiedendo un lavoro complesso per domani e sono immerso nel senso di urgenza, amplificherò ancora di più il concetto di rispetto dei tempi;
- Prestare attenzione a ciò che consideriamo ovvio e potrebbe non esserlo per l’ascoltatore (aspetti tecnici, culturali, linguistici).
Ma perché se le regole sono così semplici, è così difficile cambiare il nostro modo di comunicare?
Riusciamo a rovinarci le giornate con le nostre conversazioni interne, raccontandoci storie che si basano solo sulle nostre opinioni ma che per noi rappresentano la verità.
Siamo noi quelli che hanno il potere di fare la richiesta che può stravolgere la nostra vita, farci ottenere il lavoro dei nostri sogni e conquistare il nostro grande amore.
Pieni di entusiasmo avviamo una riunione usando parole che trasmettono coraggio, ottimismo e motivazione a tutto il team, smuovono, danno carica.
Altre volte usiamo frasi che generano ansia, preoccupazione e fanno venire voglia di cambiare azienda o al capo il desiderio di licenziarci.
Spesso non ne siamo consapevoli e talvolta non ci rendiamo neppure conto dell’impatto che abbiamo avuto sull’altro, di quanto siamo responsabili di quanto accade grazie ai nostri discorsi.
Eppure, potremmo decidere già a monte cosa dire e come dirlo.
Viviamo nell’illusione di “avere delle conversazioni” mentre, spesso, sono le nostre conversazioni ad “averci”.
Ci è richiesto un grande sforzo e un profondo processo di riflessione per uscire dall’inerzia degli automatismi che guidano ciò che diciamo e pensiamo.
I nostri pensieri e le nostre parole sono orientati dalle nostre esperienze passate, dalle emozioni del momento, dalla nostra cultura, dalla nostra pigra automatica interpretazione del mondo.
Risvegliarsi da questa inconsapevolezza può renderci liberi, e aprirci la porta a nuove possibilità, nuovi modi di interpretare gli eventi e di rapportarci con noi stessi e con gli altri.
La comunicazione nelle organizzazioni di business
Pensiamo alle organizzazioni di business o di qualsiasi altro genere.
Ovunque c’è un’enormità di aspettative non soddisfatte che creano una frattura nella fiducia fra le persone quando spesso il problema è solo che non ci si è spiegati bene, c’è stata una comunicazione carente, poco chiara, la richiesta non è stata fatta o non è stata espressa correttamente. Misunderstanding continui, perdite di tempo, delusioni, errori.
Non è diverso dal rapporto di coppia. Mi aspetto che l’altro sappia cosa mi piace, in fondo, mi conosce. Così, spesso, interpretiamo una sua mancanza pensando: “Si vede proprio che non gli interessa!”
Le aspettative si creano perché pensiamo che il nostro punto di vista, la nostra esperienza, i nostri valori siano universali e giusti, pensiamo che tutti sappiano che “si fa così” e si danno un sacco di cose per scontato.
Pensiamo alle regole non dette, implicite, che ci sono nelle aziende. Spesso crediamo di aver comunicato chiaramente un compito e invece c’è un’enormità di informazioni che l’altro probabilmente non conosce, e, senza di esse, la sua lettura risulta completamente diversa.
La consapevolezza del linguaggio
Come i pesci vivono immersi nell’acqua e tutto intorno a loro è acqua, non sanno nulla della sostanza in cui nuotano e non sono neanche consapevoli di esservi dentro, così noi siamo immersi nel linguaggio e ci viviamo dentro, ne siamo circondati, senza però esserne consapevoli e vederne l’importanza, il potere, l’impatto che ha su di noi e sugli altri.
I pesci potrebbero diventare consapevoli di vivere nell’acqua solo uscendone, cambiando il loro stato, così come noi possiamo fare un passo indietro per osservarlo, vedere come lo usiamo e diventarne più consapevoli, più competenti e usarlo meglio.
Cambiare il nostro modo di comunicare non è questione solo di strategie e tecniche, ma implica una profonda riflessione sul posto che occupiamo e da cui parliamo, su come ci poniamo all’altro e cosa ci aspettiamo da lui. Dobbiamo acquisire questa consapevolezza e comprendere l’impatto che ha il nostro discorso sulle persone che ci circondano.
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