“Andate in ferie quando volete e per quanto volete, senza chiedere il permesso”.
Non si tratta di una boutade, ma di una proposta molto innovativa fatta già sei anni fa dal patron della Virgin, Richard Branson.
E non si tratta neanche di filantropia, ma di ottimizzazione organizzativa: obiettivi chiari da raggiungere, sistema di valutazione molto rigoroso – con contratti più flessibili rispetto al Vecchio Continente – e responsabilizzazione dei collaboratori, che devono usare questa libertà “quando si sentono al 100 per cento fiduciosi che la loro assenza non danneggerà il lavoro e la loro carriera”.
Il tema del work life balance è entrato a pieno nella strategia di gestione delle risorse in azienda.
E non è più solo un tema di genere legato ai carichi di cura delle donne al lavoro ma un vero e proprio strumento di ingaggio, motivazione e produttività di tutti i collaboratori.
In Italia le iniziative sono ancora puntuali – e non strutturali – ma il trend è avviato.
Work life balance
Già nel 2017 la Lesersoft ha regalato ai 27 dipendenti una settimana di ferie ai Caraibi, per festeggiare i trent’anni di attività perché “quello che siamo diventati lo dobbiamo a chi lavora con noi” ha spiegato allora Antonio Piolanti, amministratore delegato della società.
Riconoscenza per i risultati raggiunti e ingaggio del team anche in Entire Digital Publishing, società che ha regalato ai 15 dipendenti un viaggio a Ibiza.
All’estero si va oltre il “regalo” o l’elargizione e il tempo per sé e la famiglia è parte integrante della strategia di gestione del personale. Il fondatore di FullContact – impresa hi-tech statunitense – ha deciso di introdurre un contributo per i dipendenti che vogliono andare in vacanza, da soli o insieme alle loro famiglie: 7500 dollari per godersi il massimo relax nei luoghi più suggestivi del mondo e “staccare” dal lavoro.
Il Ceo dell’azienda, per motivare la propria scelta, ha citato diversi studi secondo i quali avere più tempo per andare in vacanza aiuta a dormire meglio e anche a vivere più a lungo.
«In questo modo, si viene a creare una struttura lavorativa più sana. L’idea mi è venuta dopo una vacanza in Egitto con la mia futura moglie – ha spiegato il fondatore Bart Lorang – lei era preoccupata per me, eravamo alle Piramidi e non mi staccavo dal telefono per controllare la posta elettronica».
Oltre alla filantropia del capo azienda quindi il tema del tempo libero è sempre di più un tema di produttività e benessere non solo personale ma anche organizzativo.
Settimana corta, produttività alta
I dati più recenti e interessanti in questo senso li ha forniti Microsoft in Giappone: bastano quattro giorni di lavoro, tre di riposo e la produttività sale del 40%. La scorsa estate la multinazionale ha testato nel Paese del Sol Levante la settimana lavorativa breve con risultati “eccezionali” a detta della stessa azienda, sia sul fronte lavorativo che nella soddisfazione del personale, salita al 92%.
Nel mese di agosto, tutti i dipendenti della sede di Tokyo hanno ricevuto il venerdì come giorno di ferie pagato. In più l’azienda partecipava a eventuali spese per i viaggi e organizzava workshop per il tempo libero, o meglio, liberato.
Praticamente tutti hanno detto che lavorare un giorno in meno li rendeva più felici e quindi, implicitamente, più produttivi dal lunedì al giovedì.
In più l’azienda ha ridotto il consumo di energia elettrica del 23% rispetto allo stesso periodo del 2018, le pagine stampate del 58% e i giorni lavorativi del 25,4%.
Un altro aspetto interessante è il legame tra produttività e sostenibilità, sia sociale che ambientale: i collaboratori più felici sono più produttivi, ma lo sono in maniera più sostenibile evitando stress e burnout e ottimizzando l’uso delle risorse in ufficio.
A livello accademico ha fatto scuola un vasto studio pubblicato poco più di un anno fa dalla Travel Association and Project dal titolo “Time Off“: la ricerca si è concentra sugli effetti dell’eccessivo lavoro sulla performance e sul benessere individuale, prendendo in esame più di 5 mila adulti con una media di lavoro di più di 35 ore a settimana e i dati sono stati incrociati con quelli storici raccolti tra il 1978 e il 2016.
Ne emerge che più della metà (55%) degli americani non utilizza completamente i giorni di ferie a disposizione da contratto, per l’attaccamento al lavoro e la voglia di fare carriera. Ma “esserci sempre” non equivale a “lavorare bene” e difatti la ricerca spiega anche che chi gode delle ferie per meno di 10 giorni all’anno ha una bassa probabilità (34%) di ottenere una promozione, mentre le persone che vanno in ferie per più di 10 giorni hanno un aumento delle possibilità fino al 65%.
Anche in Italia era pratica diffusa non utilizzare le ferie, accumulandole o “convertendole” in denaro ma per l’effetto delle modifiche di legge entrate in vigore qualche anno fa, non è più possibile farlo.
Un cambio normativo che all’inizio è stato accolto con riluttanza se non con aperta contrarietà. Un obbligo al riposo “forzato” che però in breve tempo è entrato nella cultura del Paese.
Emblematico l’accordo integrativo siglato nel 2018 dai dipendenti della Lamborghini: la quasi totalità di loro (95%) tra un aumento in busta paga e più tempo libero, hanno scelto di avere cinque giorni di permessi aggiuntivi annuali, per un totale di 40 ore.
Non si tratta di un caso isolato ma di un’opzione sempre più diffusa nei contratti integrativi aziendali, in cui la produttività è agganciata al welfare.
Due le strade più battute: conciliare lavoro e vita privata, barattando giorni liberi con una busta paga più leggera – a conferma che il tempo è denaro – oppure portare a casa soldi in più come “premio” per lo smaltimento di ferie e permessi già maturati, per evitare che queste voci pesino sui bilanci di aziende.
Un trend che è diverso da quello americano delle ferie “a menu” – anche a causa della diversa legislazione sul lavoro – ma che nella sostanza rivela la stessa necessità di migliorare il benessere dei propri collaboratori, e ottimizzare i temi e le modalità del lavoro.